È ora di cambiare il modo di insegnare economia Nei corsi tradizionali non c’è traccia della crisi

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Per un gruppo che ha contribuito a cambiare il modo di insegnare l’economia nelle università di tutta la Gran Bretagna, la Post-Crash Economics Society ha avuto degli esordi abbastanza anonimi. Era il novembre del 2012 quando sette studenti del corso di laurea di primo grado si incontrarono dentro una stanzetta angusta all’ultimo piano del sindacato studentesco dell’Università di Manchester. Con le sedie disposte a semicerchio, ascoltarono la breve presentazione in Powerpoint dei due membri fondatori, che illustrava cosa c’era di sbagliato, secondo loro, nei programmi di studio delle facoltà di economia. Seguì una discussione pacata, poi l’assemblea di sciolse per l’inizio delle vacanze di Natale. Non proprio il maggio 1968 a Parigi, insomma.

Gli studenti si erano riuniti in quella saletta in risposta a un’email con il seguente oggetto: «Appello a tutti gli econoscettici in circolazione». «Nel pieno della più grande recessione mondiale degli ultimi ottant’anni – recitava il testo dell’email – gli studenti di tutto il mondo stanno mettendo in discussione le basi stesse della nostra disciplina».

L’appello proseguiva domandosi se l’economia che studiavano, dominata da formule matematiche e modelli astratti, fosse rilevante per il mondo reale. «Fino a che punto l’economia può essere definita una scienza vera e propria?», domandava provocatoriamente alludendo alla tendenza degli economisti accademici a presentare le loro equazioni e identità matematiche come leggi incrollabili, invece che come tentativi imperfetti di tradurre in un modello interazioni umane imprevedibili. L’economia, suggerivano i due fondatori, non era più simile alla politica che alla fisica?

Non erano solo i ragazzi della Post-Crash Economics Society a pensarla così. Ha-Joon Chang , un economista dello sviluppo che insegna a Cambridge, ricorda che «gli studenti mi tempestavano di domande dicendo: “È in corso la crisi finanziaria più grande dal 1929 a oggi e i nostri professori continuano a insegnare come se non fosse successo nulla”».

Nel 2011, gli studenti della celebre università crearono la Cambridge Society for Economic Pluralism , dopo aver preso parte a un ballo a tema casinò sponsorizzato da un’azienda e organizzato dalla Marshall Society (l’associazione di economia ufficiale di Cambridge), dove gli invitati sorseggiavano champagne e parlavano di lavori nella City. La nuova associazione, dice il dottorando e cofondatore Rafe Martyn, era rivolta a quelli che «studiano economia per fare del mondo un posto migliore, non solo per migliorare le proprie chances occupazionali nel settore privato». Associazioni simili cominciarono ad attecchire in altre università.

Non c’è da stupirsi che in seguito alla crisi economica più acuta dopo il crack di Wall Street del 1929, e a un sentimento di malessere ancora più prolungato, che ha provocato sommovimenti politici in tutta Europa e negli Stati Uniti, gli economisti di professione siano nell’occhio del ciclone.

Gli «esperti» di economia, che ci raccontavano di aver risolto una volta per tutte il problema dell’alternanza di espansioni e recessioni, e che ignoravano, o addirittura celebravano, il problema dell’allargamento della disuguaglianza in quasi tutti i Paesi avanzati, si sono dimostrati clamorosamente carenti quanto a capacità di previsione e soluzione. La cosa forse più sorprendente è la determinazione con cui tanti, nell’establishment accademico, difendono il loro territorio. Chang si lamenta che la scienza economica, come altre discipline presidiate da professori inamovibili, progredisce un funerale alla volta.

Eppure, contro ogni previsione, le proteste degli studenti hanno preso forza e pian piano stanno stimolando un cambiamento. Con l’inizio del nuovo anno accademico, sono molte le università del Regno Unito che propongono corsi che affrontano lo studio dell’economia in una prospettiva più ampia. A Cambridge, per esempio, gli studenti del secondo anno potranno frequentare un corso in trenta lezioni su Storia e filosofia dell’economia, e sarà il primo programma del genere in una grande università anglofona da una generazione a questa parte, dice Chang, che ne è il coordinatore.

A Londra, sia il Goldsmiths College che l’Università di Greenwich offrono corsi con un approccio pluralista. Allo University College London già ora si insegna partendo da un programma base open-source, che cerca di rendere la scienza economica più rilevante per il mondo reale. Anche a Manchester si stanno introducendo moduli di più ampio respiro: troppo tardi e ancora troppo poco per gli studenti che nel 2012 premevano per un cambiamento, ma comunque un bel passo avanti. La Post-Crash Economics Society è confluita in Rethinking Economics , un’associazione senza scopo di lucro che collega oltre 40 gruppi studenteschi (dall’Italia al Canada, dalla Cina al Brasile) che premono per un cambiamento dei programmi universitari.

«Sta succedendo – dice Diane Coyle, professoressa di economia a Manchester -. Quasi tutte le persone che insegnano economia riconoscono che dopo il crack i programmi di studio vanno riformati, anche se posso capire che agli occhi degli studenti tutto sembri procedere troppo lentamente».

La rivolta contro i programmi di studio ha implicazioni che vanno al di là del mondo accademico. Gli studenti di oggi, d’altronde, sono gli economisti di domani, che gestiranno le nostre economie dalle loro scrivanie nei ministeri, nelle banche, nelle istituzioni multilaterali e negli istituti di ricerca. Quello che apprendono sul funzionamento dell’economia e il modo in cui i Governi possono influenzare i risultati economici avrà un impatto profondo sulle politiche future in ogni ambito, dalle tasse e dalla spesa pubblica ai tassi di interesse, ai salari minimi, alle emissioni di gas serra e ai commerci internazionali.

Ma gli studenti si lamentano che per il momento continuano a essere indottrinati con la metodologia di una pseudoscienza costruita sull’impalcatura della cosiddetta teoria neoclassica. The Econocracy , un libro che uscirà a novembre e che ha fra i suoi autori Joe Earle, uno dei fondatori della Post-Crash Economics Society, presenta i seguaci del pensiero economico dominante come fanatici difensori di un insieme di ipotesi screditate, che hanno inventato un universo parallelo con «relazioni meccaniche ben definite fra le varie parti in movimento, collegate da condutture, leve e ingranaggi metaforici: i tassi di interesse scendono, i prestiti bancari salgono; le tasse scendono, gli investimenti salgono».

Il fallimento più lampante del pensiero economico dominante, sostengono gli studenti, è la sua incapacità di spiegare, e tanto meno prevedere, il crack finanziario del 2008. Durante tutto il suo primo anno all’Università di Manchester, racconta Earle, non ha sentito parlare nemmeno una volta della crisi: i suoi insegnanti sembravano credere in un sistema economico razionale capace, in larga misura, di correggersi da solo, e che sarebbe tornato in modo naturale a uno stato di equilibrio.

Earle è sicuro di sé, ma impeccabilmente educato. L’ho incontrato in un caffè di Kentish Town, vicino a dov’è cresciuto, e dopo mi ha mandato un’email in cui si scusava per essersi dimenticato di ringraziarmi per il caffè e il dolce che gli avevo offerto: non mi è sembrato uno che vuole assaltare il Palazzo d’Inverno. Prima di cominciare il suo corso di laurea in filosofia, politica ed economia, si era preso due anni di pausa dagli studi in cui aveva lavorato per The Big Issue, il giornale dei senzatetto , entrando in contatto con persone senza fissa dimora in tutto il Paese. Quando è arrivato all’Università di Manchester, a vent’anni, aveva una prospettiva molto più ampia della maggior parte delle persone.

La scienza economica che ha incontrato all’università sembrava indifferente ai problemi del mondo reale, come la disuguaglianza o la stabilità finanziaria: era dominata da eleganti modelli in cui agenti razionali e rappresentativi cercano di ottimizzare la propria utilità (o soddisfazione) all’interno di certi limiti.

The Econocracy riporta una tipica domanda d’esame per studenti del corso di laurea di primo grado. «Considerate un’economia in due fasi in cui il consumatore rappresentativo massimizza la funzione di utilità nell’arco della vita U (C1, C2) = u(C1) + ßu(C2), soggetta al vincolo di bilancio nell’arco della vita (1 + t)C1 + C2/R = W, dove 0 ß 1, W è il valore attualizzato del reddito dopo le tasse nell’arco della vita, t è l’aliquota dell’imposta sul valore aggiunto e R = 1 + r, dove r è il tasso di interesse».

Earle lamenta che l’uso ripetuto di questi modelli infarciti di formule ti mette davanti a un «sistema chiuso», impermeabile alle contestazioni. «Ti insegnano un modo limitato di concepire l’economia, come un insieme di regole e leggi che non si possono mettere in discussione e con cui non si può dialogare», dice. Gli piacerebbe, aggiunge, reintrodurre «la politica, la filosofia e magari anche l’etica» nell’economia, insegnandola come una materia «controversa», interdisciplinare, in cui la validità dei diversi approcci viene testata in base a scenari reali. I pensatori di una volta, come Jeremy Bentham e John Stuart Mill, mettevano l’etica al centro del dibattito.

Oltre alla visione neoclassica, dice Earle, un programma pluralista potrebbe includere scuole di pensiero che mettono l’accento sui rapporti di classe o sulla psicologia umana. Invece di estrapolare, come fanno gli economisti neoclassici, partendo da un agente razionale ottimizzante, dei modelli più complessi potrebbero esplorare il «comportamento emergente», prendendo in prestito metodi dalla teoria del caos e dalla meteorologia.

Nella pratica, molti economisti si sentono minacciati dalla possibilità che approcci ibridi si intromettano nella solitaria bellezza del loro giardino di perfezione matematica. Pontus Rendahl insegna teoria macroeconomica a Cambridge. È d’accordo che bisognerebbe insegnare agli studenti la storia dell’economia e le teorie che mettono in discussione il pensiero neoclassico. (Lui preferisce definirlo mainstream, perché «neoclassico», come «neoliberista», ormai è usato quasi come un insulto). Però vede con diffidenza l’introduzione di un programma di studi pluralista, che assegni un peso simile alle diverse scuole di pensiero. «Pluralismo è una bella parola – dice – ma è lo stesso argomento dei creazionisti negli Stati Uniti, che dicono che la selezione naturale è solo una teoria». L’economia mainstream ha «leggi immutabili», sostiene, e sarebbe sbagliato insegnare le teorie eterodosse come se avessero la stessa validità: «Allo stesso modo per cui penso che non si debba insegnare ingegneria eterodossa o medicina alternativa».

A una delle prime riunioni della Post-Crash Economics Society, Ken Clark, all’epoca preside del dipartimento di economia a Manchester, paragonava gli economisti eterodossi a piazzisti di «sanguisughe, clisteri di fumo di tabacco e omeopatia».

Rendahl dice che l’economia mainstream è più flessibile di quello che ammettono i suoi detrattori. Così com’è riuscita ad assimilare le teorie di John Maynard Keynes, che raccomandava di ricorrere alla spesa pubblica per correggere gli squilibri cronici della domanda e dell’offerta, così può accogliere altre teorie, come l’economia comportamentale, in cui le decisioni sbagliate rendono subottimale l’utilità.

Sostiene anche che gli studenti sono eccessivamente critici verso i modelli che devono studiare nei corsi di laurea di primo grado, che sono necessariamente semplificati. «Quando cominciamo a insegnare economia, dobbiamo insegnare i rudimenti di base». Lui introduce gli studenti del primo anno al modello Robinson Crusoe, in cui c’è un solo «agente rappresentativo». Successivamente entra in scena Venerdì, e i due possono cominciare a commerciare, anche se non c’è nessun passaggio di moneta e le transazioni sono basate unicamente sul baratto. (La moneta e il credito sono stranamente assenti nella maggior parte dei programmi di studio universitari).

Anche altri economisti accademici pensano che gli studenti stiano esagerando le dimensioni del problema. Angus Deaton, che ha vinto il Nobel per la pace in economia e insegna a Princeton, dice che l’economia è una Chiesa accogliente, ma deve mantenere il rigore.
Fa l’esempio di Daron Acemoglu , «giovane superstar» del Massachusetts Institute of Technology, che ha studiato, fra le altre cose, i modi in cui le istituzioni favoriscono o inibiscono la crescita. «È un eccellente esempio di come dovrebbero andare le cose: fare storia, ma sapendone abbastanza di matematica da poterla anche modellizzare. Bandire la matematica non è la soluzione», dice. «Il modello è il controllo incrociato per capire se uno sa davvero di cosa sta parlando».

Deaton ha collaborato con Daniel Kahneman, «l’arcangelo dell’economia comportamentale», come lo definisce lui, che con i suoi studi sulla psicologia del processo decisionale mette in discussione la teoria della scelta razionale. Ma aggiunge, con una battuta: «La maggior parte degli economisti comportamentali, quando li sento parlare, mi fanno diventare un economista della scuola di Chicago».

A Manchester, Diane Coyle difende anche la metodologia di base della scienza economica. Dice che i contestatori fanno confusione tra microeconomia, lo studio del comportamento di individui e imprese, e macroeconomia, lo studio di economie intere. La macroeconomia, ammette, «è un disastro». Ma la microeconomia è affidabile, e spesso verificabile sulla base di dati tratti dal mondo reale. Che contributo possono dare gli economisti eterodossi, chiede, ai temi tipici della microeconomia, per esempio trovare la giusta combinazione di incentivi per scoraggiare l’obesità?

A volte lo scontro di idee diventa virulento. Una studiosa che ho incontrato allo University College London mi ha parlato sottovoce, per non farsi sentire dai colleghi, delle sue critiche al programma di studi tradizionale, nonostante la recente apertura a un maggior pluralismo delle idee. A Cambridge, Chang, che non ha mai ottenuto una cattedra a tutti gli effetti, ama scherzare che i suoi colleghi devono rispettarlo come economista perché è stato certificato dal mercato: i suoi libri sono dei bestseller e hanno venduto molte più copie dei loro. La reazione è sprezzante. Un rivale, citato da Rendahl, ha replicato così: «Chi lo dice che quello che scrive Chang è economia? Se il parametro è questo, la Rowling dev’essere considerata la più grande economista mondiale».

Chang dice di essere «l’ultimo dei Mohicani», l’ultimo economista non-mainstream a riuscire a entrare a Cambridge prima che le autorità costituite alzassero il ponte levatoio. «Dopo gli anni 80, la scienza economica ha imboccato una strada ristrettissima», dice.

Gli approcci eterodossi sono stati gradualmente estromessi. Le recenti pressioni da parte degli studenti stanno modificando il dibattito. Il corso che coordina lui sulla storia e la filosofia dell’economia introdurrà gli studenti a scuole di pensiero diverse da quella neoclassica e li incoraggerà a mettere in discussione la metodologia del pensiero economico dominante guardandola dall’ottica di altre discipline accademiche. È un inizio, ma Chang pensa che la riforma dei programmi scolastici sia ancora ai primi passi. «Ci sono un mucchio di fossili intellettuali ancora in sella, che dicono che non è cambiato nulla».

Le idee degli studenti stanno facendo proseliti anche nel mondo esterno. Robert Skidelsky , il biografo di Keynes, le sostiene. E anche Andrew Haldane , economista capo della Banca d’Inghilterra: «Ci siamo tutti fatti conquistare da un particolare schema di pensiero, da un particolare approccio di modellizzazione – dice Haldane -. È diventata una sorta di monocultura metodologica che non era attrezzata adeguatamente per interpretare economie o sistemi finanziari vicini o già arrivati al punto di rottura».

Anche Haldane pensa che le cose stiano cambiando, pur se lentamente: «La mia sensazione è che in questo momento abbiamo imboccato un percorso leggermente diverso, tecnicamente. E con il tempo, poco a poco, molto gradualmente, questo migliorerà le cose».

Earle dice che il movimento studentesco comincia ad avere influenza, anche se i cambiamenti sono più timidi di quello che auspicherebbe. L’obiettivo generale, dice, è disintossicare la scienza economica dall’idea di aver trovato «l’unica vera via». I sostenitori indefessi dell’economia neoclassica, dice (rovesciando abilmente le critiche contro gli economisti ortodossi, raffigurati come ciarlatani), si comportano «come gli astronomi prima di Galileo». Alla fine, l’insegnamento dell’economia dovrà diventare «più pluralista, più critico, più liberale», afferma: esplorazione delle idee invece che un addestramento al sacerdozio economico.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

Copyright The Financial Times 2016

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