Il debito cinese ha colpito l’occhio preoccupato di Fitch

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Fitch Ratings avvisa che i debiti tossici nel sistema bancario cinese sarebbero dieci volte maggiori di quanto ammesso ufficialmente e i costi di un salvataggio raggiungerebbero un terzo del PIL, negli ultimi due anni le autorità hanno lasciato che la crisi si deteriorasse.

L’agenzia ha detto che l’ammontare dei debiti insolubili (NPLs – non performing loans) ha raggiunto un livello tra il 15 e il 21% e sta crescendo veloce mentre il paese rimanda una riforma seria, facendo invece affidamento su un aumento di credito fresco allontanando il giorno della resa dei conti.

Ripulire questa ereditá tossica costerebbe 21 miliardi di dollari, se fatta allo stato attuale, e gran parte di questa faccenda ricadrebbe inevitabilmente sul governo.

Dice che “Ci sono giá segni di stress a tal punto che i debiti tossici sono ben piú alti delle stime ufficicali (1,8%) chiaramente percepibili per lo piú per l’aumentata frequenza con cui le banche stanno stornando o disfandosene”.

Le banche ovviamente hanno avuto perdite che sono state rimescolate nei loro bilanci in seguito a sistemi generosi per il management o classificandole come crediti interbancari, sembra in combutta con i controllori. I debiti in ritardo di novanta giorni non sono sempre giudicati come cattivi debiti.

“Piú i debiti crescono piú è a rischio la qualitá dei titoli e sono possibili shock di liqidità del sistema bancario” dice Fitch. La diminuzione del capitale é attualmente tra l’11% e il 13% del Pil ma nello scenario piú spaventosi raggiunge il 33% entro la fine del 2018.

Dice che “I default in Cina possono, in seguito a reciproche garanzie sul credito, tirare in ballo altre imprese. Una vasta crescita dei default può innescare una catena di bancherotte che aumenta la possibilitá di una instabilitá finanziaria”.

Il rapporto di Jonathan Cornish e Grace Wu dice che “Le banche di intermediazione hanno le difese piú deboli e sono le piú vulnerabili agli stress”.

Il danno eclissa le perdite avutesi durante la crisi finanziaria mondiale in Inghilterra e negli USA per le quali i costi diretti del salvataggio bancario arrivavano a mala pena all’8% del PIL. Sarebbe piú simile, ma su scala maggiore, al trauma sofferto in Irlanda, Grecia e Cipro quando il sistema bancario é collassato.

Lo stato cinese ha una borsa grande ma le tensioni crescono. Il debito pubblico ha ragiunto il 55% del Pil in seguito al bail-out dei governi locali. È adesso maggiore di quello dei suoi pari con nota “A”, la maggior parte dei quali nel mondo sviluppato. “La pressione sul rating del debito pubblico puó emergere nel caso in cui l’indebitamento generale del governo crescesse significativamente”, dice il report Fitch.

La Cina lasció che, con una spinta della crescita del credito fresco a partire da metá dello scorso anno, una serie di politiche errate causassero una recessione – con “caratteristiche Cinesi” – ad inizio 2015. Si lasció sfuggire qualsiasi tentativo serio di riforme dell’economia e optó per un abituale stimolo, tagliando i tassi di interesse, e la riserva frazionaria esigibile.

Alla fine dello scorso anno il credito ha raggiunto il 243% del Pil il doppio del livello del 2008. I titoli del sistema bancario sono cresciuti di 21 miliardi di dollari da quel tempo, 1,3 volte piu grandi che l’intero complesso bancario statunitense.

Fitch stima che il rapporto balzerà al 253% quest’anno, e al 261% nel prossimo anno. Le restrizioni agli affitti si sono allentate molto e gran parte del credito erogato va nella speculazione immoboliaria aumentando i prezzi del 40% rispetto allo scorso anno a Hefei, del 37% a Shenzen e a Nanjing, del 31% a Shanghai.

Solo nei primi cinque mesi di quest’anno iI prestiti sono aumentati di 1,2 miliardi. Le autoritá hanno iniziato a spingere sui freni, producendo una rallentamento dell’economia tra inizio e fine 2017. I pessimisti temono che possa causare un punto di flesso per la Cina e il mondo.

La dipendenza dal credito sta diventando incredibilmente pericolosa per due motivi: l’efficienza del credito è collassata. Fitch stima che ciascun nuovo yuan di credito generi solo 0,3 yuan di crescita, meno rispetto allo 0,8 di prima della crisi Lehman.

Contemporaneamente la crscita del PIL é dimezzata da un cica 15% al recente 7% rendendo molto piú duro per il paese lavorare senza debiti, il cosiddetto effetto denominatore. Un percorso che é diventato trincerato dove il credito sta crescendo piú velocemente che la sottostante base economica.

Mark Williams di Capital Economics afferma: “Pensiamo che le autoritá cinesi possano ancora ripulire questo debito. In uno scenario estremo con crediti inesigibili del 25% calcoliamo che il governo dovrebbe spendere il 35% del PIL sostenedo le banche. Questo aumenterebbe il debito al 90%. Cioé alto ma in principio fattibile”.

Williams ha detto anche che sará molto arduo per Pechino ripetere i trucchi usati per controllare la crisi economica di fine anni ’90. Un ruggente boom mondiale – con crescita del PIL – hanno sminuito il carico dei bond salvati dallo stato e l’uso di “repressione finanziaria” per mantenere i tassi sui depositi ad un livello imposto.

Adesso niente di questo è più possibile. I tassi sui depositi sono stati liberalizzati. Il contesto globale é del tutto diverso e la Cina sta iniziando a sentire la tensione demografica dovuta ad una contrazione della forza lavoro. Williams dice che la maggiore preoccupazione é che il Partito Comunista non riesca a realizzare riforme, conducendo ad una economia stgnante e oscuri calcoli per la triettoria del debito. Ha detto: “Abbiamo paura che la crscita possa cadere al 2%”.

Fitch dubita che ci sará un collasso in stile Lehman Brothers o un grande dramma analogo alle crisi bancarie occidentali poiché i quattro grandi istituti di credito sono organi del Partito Comunista. “Il predominio di banche statali e il fatto che in gran maggioranza si fondano su depositi smorza il rischio di una crisi finanziaria”.

L’epilogo sembra piú simile ad un torbido compromesso simile a un quadro giapponese di lenta deflazione e confusione. Una decade perduta puó essere dietro l’angolo.

 

Ambrose Evans-Pritchard

Fonte: http://www.telegraph.co.uk

Link: http://www.telegraph.co.uk/business/2016/09/22/fitch-warns-bad-debts-in-china-are-ten-times-official-claims-sta/

 

Wall street: Trump – Cina, l’anello mancante

Lo Yuan si appresta ad entrare ufficialmente nel paniere di valute internazionali di riserva del Fondo monetario internazionale questo sabato, dove sarà affiancato da dollaro, sterlina britannica, euro e yen.Questo evento è già di per sé un terremoto geoeconomico.

Non soltanto ciò rappresenta un ulteriore passo nell’irresistibile avanzata della Cina verso la supremazia economica; l’inclusione della valuta Cinese nei diritti speciali di prelievo (Special drawing rights, acronimo SDR) inciterà le banche centrali e i più ricchi fondi d’investimento, per primi quelli USA, a comprare sempre più assets Cinesi.

Al primo dibattito pre-ellettorale per le presidenziali USA, Donald Trump non ha risparmiato critiche alla attuale manipolazione valutaria imputata alla Cina, sostenendo che:
“Guardiamo che cosa sta facendo la Cina agli Stati Uniti, perchè producono le nostre merci: continuano a svalutare la loro moneta e nessuno nel governo fa qualcosa per opporsi…Usano gli Stati Uniti come salvadanaio per ricostruire la Cina, e molti altri paesi lo fanno”.

Bene, la Cina non “produce i prodotti Americani”, l’intero processo produttivo è made in China, poi esportato in USA. Il più dei profitti vanno alle multinazionali USA, tutto ciò che va dal design, licenze, diritti d’autore e brevetti, nonchè pubblicità, finanza, margini dalla vendite al dettaglio. Se i mantra che vengono incessantemente ripetuti hanno una qualche verità residuale, come che gli Stati Uniti hanno perso il loro settore manifatturiero trasferendolo alla Cina, la Cina è la fabbrica del mondo, non rivelano però la verità, un pò più nascosta,che a trarre profitto dalla situazione sono essenzialmente le maggiori multinazionali.

La Cina non “svaluta la sua moneta“; la banca centrale Cinese riaggiusta a scadenze periodiche il tasso di cambio dello Yuan in base a un ristretto margine di oscillazione previsto. I maggiori praticanti dell’alleggerimento quantitativo (QE, quantitative easing) sono infatti gli stessi Stati Uniti, Giappone e la BCE in Europa. E la valuta in cui avvengono gli scambi di beni di consumo reali continua ad essere il dollaro USA, non lo Yuan.

Pechino inoltre non sta “usando gli Stati Uniti come salvadanaio per ricostruire la Cina“. E’ una questione di bilancia dei pagamenti. Quando i consumatori USA spendono in prodotti made in China, molti di essi delocalizzati dalle multinazionali Americane, i soldi ritornano indietro in forma di flussi di capitali che mantengono i tassi d’interesse bassi e a sostenere l’egemonia mondiale dell’impero del caos.

Win-win, stile Wall Street

La soglia di attenzione di Trump è notoriamente minima Se i suoi consiglieri riescono a imprimere (twittare?) qualche riga sparsa nel suo cervello, potrebbe anche riuscire a spiegare al pubblico Americano come si svolge veramente il gioco USA-Cina, qualcosa che le parti interessate in entrambi i paesi sanno benissimo.

E l’anello mancante, quello cruciale, nella costruzione dell’intero discorso, è Wall Street.

Ecco come funziona. Un noto grosso hedge fund (fondo speculativo) contatta una multinazionale, o comunque una grossa compagnia USA con “Un’offerta che non potrete rifiutare“: Delocalizzare in Cina. Il passaggio implica necessariamente che tutte le proprità della compagnia saranno ipotecate in una contabilità a partita doppia mantenuta a Wall Street.

E Wall Street vince da entrambi i lati della partita: sia finanziando la delocalizzazione (e corrispondente estinzione di posti di lavoro USA) verso la Cina, o comprandosi le compagnie che si rifiutano di delocalizzare.

Poi si occupano di arbitrare sui salari rispetto ai prodotti che erano made in USA e adesso sonomade in China; l’enorme differenza di stipendi tra USA e Cina, un fattore determinante nel tasso di cambio Dollaro-Yuan.

La Cina da parte sua ricicla i dollari USA che incamera comprando buoni del tesoro (bot) USA. Ciò, naturalmente, mantiene i prezzi dei bond alti, e ciò consente di mantenere i tassi di interesse USA bassi.

Tutto in effetti è ai suoi massimi: costo dei bond, valore percepito del dollaro nel mondo, tassi di cambio. Dollari entrano nell’economia Americana senza sosta, dopo, in teoria, sono usati per continuare a comprare freneticamente prodotti made in China.

Chiaramente, il prezzo dei prodotti made in China in USA è basso, è ciò è un “incentivo” sufficiente per le compagnie Americane per lo scotto da pagare, mantenere gli Americani normali, dipendenti dall’economia reale, disoccupati. Come notoriamente disse Steve Jobs: “questi lavori partono per non ritornare“.

Il tasso di cambio dollaro-yuan si manterrà alto finchè la Cina, ed altri, continueranno a riciclare i loro ricavati in eccesso per comprare in massa BOT Americani. Il punto cruciale è che ad ogni modo questi dollari non entrano mai a nessuno stadio nell’economia reale. Restano sempre “intrappolati” o nei confortevoli piani alti del capitalismo da casinò di Wall Street o nelle operazioni bancarie “rarefatte” delle banche troppo grosse per fallire (Too big to fail). La FED (Federal reserve) desidera che il gioco vada avanti all’infinito, così prevenendo un collasso improvviso dei tassi-

Anche Pechino da parte sua gioca volentieri e con gusto; come leader incontrastato delle esportazioni mondiali, l’agenda è di consolidare, ed espandere, la capacità produttiva (know how) fino a raggiungere lo status di paese moderatamente benestante dall’inizio della prossima decade.

Il punto è che per recuperare lavori nel settore manifatturiero in America, cosa che Trump continua a promettere, dovrebbe non meno che affrontare a viso aperto l’intera oligarchia finanziaria di Wall Street

Non è quindi una sorpresa se questi oligarchi, primi responsabili del trasferimento di tutti questi posti di lavoro in Asia e beneficiari diretti del racket dei generosi salvataggi con soldi dei contribuenti delle banche too big too fail, lo odiano con tutta la forza della loro bile placcata oro.

Spedire all’inferno i too big to fail

Nonostante tutta la sua patente incapacità di formulare pensieri più complicati delle capacità linguistiche di uno scolaro di terza elementare, Trump continua ad affastellare proposte scioccanti che ottengono amplissima risonanza, e ben più audaci dei confini del “paniere dei concetti deplorevoli” del politically correct.

Si oppone alla “Seconda guerra fredda” e alla strategia anti-Cinese del “Pivot to Asia” e dice apertamente “Non sarebbe meglio andare d’accordo con Russia e Cina piuttosto?”. Ha non meno che eliminato ogni rischio di terza guerra mondiale dichiarando che si opporrebbe senza riserve alla possibilità di un nuclear-first strike USA (dottrina militare che prevede l’impiego offensivo del nucleare, ndt).

Aborre totalmente il “libero mercato globale”, dal NAFTA al TTP e TTIP perchè ha “privato di senso e prospettiva le vite dei lavoratori Americani”, dal momento che le multinazionali USA (su “incentivo” di Wall street) delocalizzano e sono poi libere di reimportare in USA senza pagare dazi.

Trump aveva persino caldeggiato l’ipotesi di nazionalizzare le banche di Wall Street dopo la crisi finanziaria del 2008.

Quindi assistiamo all’ennesimo spettacolo surreale di un miliardario che denuncia la globalizzazione a opera delle multinazionali, responsabile della perdita di un numero praticamente incalcolabile di buoni posti di lavoro e relative agevolazioni sociali, senza contare il degrado delle infrastrutture. Tutto ciò avvenuto senza che assolutamente a nessuno, tra i membri dell’establishment USA, venisse in mente di denunciare ciò che rappresenta in realtà il più clamoroso trasferimento di ricchezza verso lo 0,0001% della storia conosciuta.

Sei prossimi due dibattiti presidenziali a Trump venisse in mente di puntare il mirino verso l’anello mancante nella sua intera narrazione, ossia lo 0,0001% o Wall Street, si metterebbe senza dubbio la vittoria in tasca.

 

Pepe Escobar

Fonte: http://www.rt.com

Link:  https://www.rt.com/op-edge/ 361057-wall-street-trump- china-/

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